giovedì 28 febbraio 2013

Io, celiaca


Cosa vuol dire essere celiaci? Di definizioni ce ne sono tantissime nel web. Ma al di là delle parole pronunciate da esperti dottori, cosa succede nella mente di un individuo affetto da Morbo Celiaco? Solo lui può raccontarlo. Così, essendo celiaca, voglio raccontare la mia esperienza. Sono trascorsi tanti anni da quando ho stretto tra le dita quella diagnosi, da allora nulla è stato semplice, perché mangiare è una necessità quotidiana per vivere, e avere proprio nel piatto, in cucina o sulla tavola il proprio nemico, non è facile. Sono trascorsi 13 anni da allora. Ora sono serena e non ho più alcun problema, perché tutto è cambiato, a partire dalle mie abitudini. Buona lettura.

Breve racconto di una dieta stravolta"

Avevo vent’anni quando il gastroenterologo mi disse che ero celiaca. 
Ricordo che mentre me lo comunicava, rimasi seduta alla sua scrivania, senza fiatare, più del dovuto. Lui dovette capire che una doccia fredda aveva gelato i miei pensieri e, per tranquillizzarmi, smise di parlare dei cibi vietati e mi elencò le cose che avrei potuto mangiare liberamente. Ma la mia attenzione si fermò a “da oggi in poi non potrai mangiare pasta, pane e pizza”. 
Uscì dalla clinica piangendo. A farmi male era l’idea di una malattia a vita, dalla quale non ci si può liberare.
Che qualcosa in me non andasse era un dato di fatto, dal momento che dimagrivo progressivamente sempre di più, fino a toccare i trentanove chili, e le analisi del sangue risultavano allarmanti. Vomitavo sempre dopo aver mangiato e questo mi ha causato non pochi problemi con i miei genitori che pensavano fossi anoressica, bulimica o giù di lì. Ma a me della linea asciutta non importava: mangiavo tanto e con gusto ogni pietanza che mi si presentava sotto al naso (si, perché ogni volta che mangio, soprattutto cose nuove, ho il vizio di cominciare ad assaporare con il naso; devo sniffare l’odore per capire se alle papille gustative piacerà!). 
In media, divoravo 200 gr di pasta “normale” ogni giorno, tra pranzo e cena. Adoravo tutto ciò che era fatto con farina: focaccia, pizza, pane, dolci. Dire che ero una simpatizzante dei carboidrati è sminuire quella che era una vera e propria passione! Passione traditrice, perché più mi cibavo di quelle cose che amavo, più loro mi logoravano dall’interno. Subdolamente mi stavano distruggendo l’intestino, il fegato e tutti i valori fondamentali del sangue, esponendomi a vari rischi, tra cui, il peggiore, il cancro all’intestino. 
All’indomani della gastroscopia e biopsia al duodeno e, quindi, del verdetto medico, mi svegliai per fare colazione e seduta al tavolo non sapevo cosa mangiare. Non credo sia semplice capire il dramma di chi solitamente spazzola via una rossetta con burro e marmellata, per concludere una prima colazione cominciata con un mega “zuppone” di latte e savoiardi. Mia madre mi allungò la mia tazza di tè (all’inizio non potevo toccare neanche i latticini perché alle intolleranze piace viaggiare insieme e dovevo fare altre analisi per capire se era anche il mio caso). Nessun biscottino, nessun pezzo di torta alle mele, niente. Solo tè. Inutile dire che la pancia brontolò tutta la mattinata!
Il pranzo a base di risotto con funghi andò decisamente meglio. All’inizio fu davvero brutto, perché nel Duemila ancora non esistevano tutti i prodotti alternativi senza glutine che, invece, oggi si trovano in grande varietà praticamente ovunque. A rendere, poi, il tutto più complicato erano le mie care vecchie abitudini, come il panino all’olio farcito con la nutella alle quattro di ogni pomeriggio; oppure la fetta di pane casereccio con i pomodorini freschi, basilico, sale e olio paesano alle undici del mattino, mentre preparavo gli esami universitari. 
Il giorno seguente, il secondo da celiaca, un’amica di mia madre mi diede un pacco di pane e pasta senza glutine del figlio celiaco e mi indicò la farmacia più fornita di questi prodotti. La prima volta che mangiai quel pane ci rimasi male: già l’aspetto fu deludente, ma quello che risultò tremendo fu il gusto. Per farvi capire: avete mai mangiato il pancarré? Appena aperto il pacco, le fette sono fresche e morbide, ma dopo qualche giorno si sfiatano e diventano tavolette di pane vecchio, duro e dal gusto cattivo. Ecco! Questo era il sapore di quel pane appena aperto il pacco. E non vi dico il giorno dopo cos’era diventato!
Ma ben presto capii che il gusto è un qualcosa che si può plasmare e, per fortuna, dopo qualche mese cominciai a tollerare i sapori dei prodotti sottovuoto che acquistavo rigorosamente in farmacia a prezzi incredibili. Con il tempo sono riuscita addirittura a trovare alcuni di essi gradevoli. 
Per me era una vita nuova, diversa, un po’ più complicata. Dovevo evitare di dover mangiare fuori casa, quindi di andare fuori a cena con gli amici o con il ragazzo. Anche andare a casa di amici spesso diventava un incubo per via delle contaminazioni o delle cose che non potevo neanche annusare. 
Sono nata e vivo a Salerno, una città campana dalla forte tradizione per la pasta e la pizza. Per i salernitani cenare con la pizza è un qualcosa del tutto naturale e molti lo fanno più di una volta a settimana. Per me tutto era cambiato, ma la pazienza è alleato del tempo e mi sono abituata a una vita priva di glutine.
È stata dura, lo ammetto, e ancora oggi, oggi che ho trovato alternative più che valide a tutti i cibi vietati, oggi che trovo prodotti per me ovunque, oggi che la celiachia è molto più diffusa e conosciuta, oggi che i ristoranti e le pizzerie hanno intravisto un business accattivante nel cibo gluten free, ebbene, ancora oggi quando passo nei pressi di un forno e l’odore di pane appena sfornato circola in me, un senso di malinconia torna a pizzicarmi il cuore. Ma dura un attimo, perché nella vita ci si abitua a tutto.
Rosanna Gentile

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